Che il mondo del lavoro stia cambiando non è certo un mistero. La pandemia – e il macroscopico sviluppo dello smart working, di seguito – ha fatto da acceleratore ma molte trasformazioni erano già in atto da tempo. A partire dalla Great Resignation – il fenomeno delle Grandi Dimissioni – già presente negli USA da prima della pandemia e attualmente diffuso anche in Europa (Italia compresa).
Le trasformazioni in atto nel mondo del lavoro ci obbligano a familiarizzare con un nuovo vocabolario, che fa da veicolo a ulteriori tendenze. Sia che si parli di Grandi Dimissioni sia che si parli di quiet quitting, tuttavia, un denominatore comune c’è: il nostro rapporto con il mondo del lavoro sta cambiando. Stiamo iniziando a chiedere – e a pretendere – qualcosa in più e questo qualcosa (“il pane e le rose”, in parte) porta alla luce alcuni aspetti della hustle culture – il modello iperproduttivo tossico per eccellenza – che dobbiamo e possiamo cambiare.
Il panorama lavorativo attuale è complesso, non c’è che dire, e lo complicano ulteriormente i dilemmi innescati dagli sviluppi dell’Intelligenza Artificiale. L’AI ci ruberà il lavoro? Dovremo prepararci a un mondo in cui a lavorare saranno i robot? Nel caso, quali potrebbero essere le soluzioni possibili sia in termini economici (reddito universale, ad esempio) sia in termini identitari, considerando che la nostra cultura lavorativa attuale vede una vera e propria identificazione dell’individuo con la sua professione?
Di tutti questi aspetti ho parlato oggi su Teletruria.