La differenza tra un ghostwriter e un utero in affitto

Ho un’amica che mi chiama “ghost” e la cosa mi piace assai. “Ciao ghost!”, mi dice. E io sorrido. Sorrido un po’ meno, invece, quando qualcuno mi consiglia – con tono confidenziale – di non includere questa attività nel mio curriculum vitae. “E nel curriculum mortis? Posso?”, chiedo sempre di rimando. Dopotutto sono una ghost.

Al netto di queste esperienze, comunque, ho deciso di scrivere qualche articolo per spiegare al mondo cos’è un ghostwriter e perché non mi vergogno di campare di questo losco (?) mestiere. Ma partiamo dagli inizi e vediamo di capire in prima battuta cosa NON è un ghostwriter. Di seguito, ecco una selezione stringata ma esaustiva delle peggio-cose che mi sono sentita chiedere. Attenti, perché è materiale che scotta.

“Ma un ghostwriter è un autore che scrive solo racconti di fantasmi?” (e va beh, passi) “Ma un ghostwriter è un autore che scrive libri travestito da fantasma?” (sì: qualcuno me l’ha chiesto. Gente che, peraltro, apparentemente  non si droga) “Fai la ghostwriter? Ma dai, povera! Che avvilente. Non è un po’ come dare l’utero in affitto?” (O Cristo!)

Dunque, vediamo di fare un po’ di chiarezza. Il ghostwriter è uno scrittore che presta la sua professionalità a un committente rinunciando all’autorialità della propria opera in cambio di un compenso pattuito. Il che è grossomodo ciò che capita negli ambiti più disparati e che viene accettato senza che nessuno si sogni di batter ciglio. Perché? Perché queste sono in linea di massima le caratteristiche di un terzista comune e silvestre e proprio questo è, un ghostwriter: un terzista della scrittura. A volte – proprio come fa il terzista – il ghostwriter lavora su un prodotto fornito dal committente (che ha scritto il libro ma si rende conto che l’opera non sta in piedi). Trattasi di outsourcing nel vero senso del termine. Altre volte il committente chiede al suo nègre di fiducia (sì, in Francia ci chiamano così!) di scrivere il libro dall’inizio alla fine.

Nulla di mostruosamente amorale se pensate che questo capita – dalla notte dei tempi – in settori diversi. La vostra lavatrice, con ogni probabilità, non è stata fatta per intero dall’azienda che le ha messo il marchio, la vostra adorata borsa di Gucci non è (udite! udite!) fatta per intero da Gucci. Idem per quanto riguarda gli ambiti più disparati, anche in campo artistico. Per esempio, qualche mese fa ho conosciuto la ghostwriter di un bravissimo comico italiano… che peraltro non è un imbroglione per il fatto di avere una ghost (in realtà, di ghost ne ha tre) ma semplicemente un bravissimo attore che si fa scrivere i testi da chi di dovere.

Detto ciò, chi sono i committenti di un ghostwriter? Scrittori? A volte sì: in alcuni casi, in realtà, sedicenti scrittori, altre volte scrittori veri e propri che avendo troppe commissioni “danno in appalto” un po’ di lavoro al loro esercito di scrittori fantasma. Si dice che anche Stephen King abbia i suoi ghost… personalmente non so se sia una bufala o meno. Anche se fosse, però, la cosa non mi scandalizzerebbe. Pensate solo ai quadri che passano per opere di (puta caso) Michelangelo e invece sono state fatti dalla sua “bottega”. Ok, in questo caso si trattava di apprendisti, ma nella sostanza di molti di loro non sapremo mai i nomi. Perché? Perché erano dei “ghost”. Punto.

Nella maggior parte dei casi, comunque, il committente del ghostwriter non è uno scrittore ma un professionista che lavora in ambiti diversi dalla scrittura e ha bisogno di firmare personalmente il libro non per motivi di vanitas vanitatis ma per semplici ragioni di personal branding Dopo anni che ci siamo sentiti stramazzare le suddette da sollecitazioni continue, oggi l’unica forma di pubblicità potenzialmente efficace è quella che “non spinge, ma attrae”. Ecco perché per esempio un cuoco che commissiona un libro a un ghost ha bisogno di far figurare il proprio nome: il libro, in questo caso, è una via di mezzo tra il biglietto da visita, il curriculum vitae e una potente calamita. In parole povere, al nostro cuoco non importa una cippa di vincere il Pulitzer: il libro gli serve per essere “riconosciuto” in mezzo al mare magnum dei cuochi in circolazione. E poi comunque, datevi pace, in casi come questo (sempre per motivi di personal branding) il ghost di turno non ha nessun interesse a rivendicare la paternità dei suoi figlioli… e non perché non creda nella validità della propria opera, ma perché non gli interessa accreditarsi davanti al mondo come il cuoco che – peraltro – non è.

Comunque, tornando a noi e alle domande imbarazzanti su cos’è un ghost… sappiate che sono oltremodo tollerante. C’è solo una domanda che mi fa uscire dai gangheri e la domanda è: “Ah, fai la ghostwriter? Hai visto il film  di Polanski?” Ecco, in quel caso vi bestemmio dietro ( e anche davanti). Non perché non ami Polanski, ma perché quel film finisce così…

2 risposte a “La differenza tra un ghostwriter e un utero in affitto”

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