Un paio di mesi fa ho tenuto un corso di storytelling e sceneggiatura che, in fase di preparazione, mi ha indirettamente fornito una lente di ingrandimento su come è cambiato il nostro modo di costruire storie e di raccontarle. E’ proprio mentre ero lì “con le mani in pasta” nella fase di ricerca che un amico mi ha suggerito di guardare “Game of Thrones”.
Non amo il fantasy e le ambientazioni medioevali mi stufano a priori, ma l’amico in questione mi ha fornito l’esca perfetta dicendomi che “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” scardinano diversi cliché dello storytrelling tradizionale (vedi schema di Propp ecc). Insomma, ho affrontato la fatica e mi sono macinata sette serie per rimettermi in pari. Risultati: ho immagazzinato materiale di riflessione da qui ai prossimi vent’anni. Effetti collaterali: ho sviluppato una dipendenza da GoT quasi invalidante (però ne sto uscendo).
Ma torniamo a bomba. Stamattina ho letto un articolo sull’ultimo episodio di GoT – che devo ancora vedere – e dopo poche righe mi sono resa conto (santiddio!) che si trattava di uno spoiler. Ho chiuso l’articolo. Ho smadonnato. Poi mi sono fermata a riflettere sul concetto di spoiler e mi è sorta spontanea una domanda. Del tipo: è sempre esistita la paranoia dello spoiler? Come sono cambiati – in questo senso – i fruitori di storie?
Di materia prima sul tema, ce n’è a iosa a partire dalla letteratura più antica. Vogliamo parlare del dettagliato spoiler che Omero – o chi per esso – ci propina nel proemio dell’Odissea? Del prologo – altamente spoilerante – del “Romeo e Giulietta” di Shakespeare? Dell’incipit di “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”? Di alcuni film che iniziano a partire dal finale, come “Lettera da una sconosciuta” di Ophuls? La letteratura – e la cinematografia – sono piene zeppe di esempi di questo tipo. Se pensiamo poi a forme come la fiaba e la leggenda (cioè a storie fatte per essere ri-raccontate da chi non ne conosceva solo il finale, ma anche la trama) le cose sono ancora più evidenti. Chiudo l’elenco con l‘esempio di George Lucas, il quale nel ’76 (ripeto: settatasei!) raccontò per filo e per segno al New York Times la trama di Stars Wars dal principio alla fine.
Ma rifacciamo un passo indietro. C’era – in effetti – un tipo di storytelling, nel passato, in cui non erano previsti spoiler (al di là di gialli e noir, ovviamente). Lo dico con cautela e a caldo, perché non ho fatto ricerche approfondite in merito: parlo del romanzo d’appendice, una tipologia di racconto in cui l’uso di tecniche di suspense era fondamentale per indurre il pubblico a proseguire nella lettura (comprando il numero successivo del giornale). Ed è qui che mi sorge un dubbio: non è che alla fin fine il problema sta tutto qui? Forse abbiamo iniziato a fruire delle storie così come si legge un giallo, un noir, o come si leggeva un romanzo d’appendice: con l’attenzione magnetizzata dal “cosa succederà ora?” piuttosto che da altri elementi cardine dello storytelling universale.
Parlo dell’aspetto identificativo, per esempio: quello che – anche sul piano pedagogico – ha segnato il successo secolare (no, millenario) della fiaba. Quando un bambino prosciuga il cantastorie di turno chiedendogli di raccontargli per l’ennesima volta la storia Pollicino, non lo fa perché si è dimenticato la trama o il finale. Lo fa per precipitare in una sorta di mantra autoipnotico in cui sarà lui a diventare Pollicino e in cui lui sconfiggerà l’orco e tornerà a casa da vincitore.
Ci sono poi altre storie che sembrano fatte per essere ri-lette, ri-ascoltate e ri-viste piuttosto che per esaurirsi a una prima fruizione. Parlo – per esempio – di quelli che Calvino chiamava “i classici“: le storie che, a ogni lettura, sfogliano livelli ulteriori di significato. Ho ri-letto “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov nove volte. Ho rivisto “Jules et Jim” di Truffaut non so quante volte tanto che certi dialoghi, li so a memoria. Le storie – o meglio: certe storie – hanno senso al di là del finale o degli eventi cardine che ne scandiscono la trama. Anche GoT, che soprattutto nelle prime stagioni aveva dalla sua dei dialoghi bellissimi.
La paranoia dello spoiler appiattisce i livelli di lettura di una storia e ci impedisce di coglierne la tridimensionalità. Un po’ come per i viaggi.. Se non capite cosa voglio dire, leggetevi “Itaca”… che certe cose, Kavafis le aveva capite da mo’.