INTERVISTE AL TRANCIO, Debussy e l’Esoterismo secondo Alessandro Nardin

Alessandro Nardin è un musicologo di tutto rispetto. Su questo non ci piove. Poi lo ammetto: l’opinione di Quirino Principe in fatto di musica, per me, è oro colato e Quirino Principe – di Nardin – ha detto un gran bene. In particolare a proposito della sua ultima fatica, il libro “Debussy l’esoterista”, che ho letto qualche mese fa e che mi è piaciuto moltissimo.

Perché? Parlare di musica ed Esoterismo non è semplice. Il rischio è duplice (anzi, triplice): da una parte si rischia di scadere nello stile pop dei tipici “cacciatori di misteri” – o nella fiction alla Dan Brown – dall’altra è facile imbrigliare l’indagine nei limiti (ristretti) della ricerca storica di tipo accademico. Nello stile: X si è affiliato alla Massoneria nell’anno YYYY.

Ecco, il pregio del lavoro di Nardin sta proprio nel fatto che è riuscito a uscire da tutti i cliché. Il perché, lo racconto (anzi: lo faccio raccontare a lui) in una delle mie INTERVISTE AL TRANCIO.

I miei libri

Sì, non ne parlo mai ma oltre che giornalista e ghostwriter sono anche autrice di alcuni libri. Alla luce del sole, insomma: non come ghost.

Il legame con la città e il legame con la musica: la maggior parte di ciò che ho scritto in qualità di autrice ruota intorno a questi due cardini. La città (che nella maggior parte dei casi è Milano) è la metropoli: multietnica, pasticciata, costituzionalmente work in progress.

La musica, invece, rappresenta il filo rosso che mi permette di amplificare la narrazione e di moltiplicarne le prospettive, grazie all’interazione con altri artisti. Sulla base di queste due costanti ho scritto un romanzo – Chez Alì – una raccolta di racconti – Un 2×12 – e mi sono intrufolata come coautrice e curatrice in diverse antologie di racconti e in una guida alla Milano underground. Per il compositore siciliano Joe Schittino ho scritto il libretto d’opera Hercule le funambule e ho collaborato con Giordano Dall’Armellina scrivendo i testi delle canzoni che sono uscite con i racconti di Un 2X12.

Sono inoltre autrice di diversi racconti usciti in antologie differenti e sono coautrice del primo libro sul giornalismo costruttivo uscito in Italia.

I miei libri…

Chez Alì (0111 Editore, 2013), Hercule le funambule ou le fantome du portemanteau (comédie psychique en deux actes, musica di Joe Schittino, 2013), La notte del terremoto (0111 Editore, 2013), Racconti mondiali (Autodafé Editore, 2014), Re/Search Milano-Mappa di una città a pezzi (Agenzia X, 2015),  Buone Notizie. Il 2015 che i media non vi hanno mai raccontato (Edizioni Buone Notizie, 2015), Biblioteca Vivente: narrazioni fuori e dentro il carcere (Altraeconomia, 2016), Un 2X12 (La Vita Felice Editore, 2017), Giornalismo costruttivo: cos’è, come funziona e perché è necessario (Associazione Italiana Giornalismo Costruttivo, 2019)

“Un 2×12”: un libro che non è solo un libro. E l’editore che ha avuto il coraggio di pubblicarlo

Tutto è cominciato così: con me e Giordano Dall’Armellina che ce la cantiamo e ce la suoniamo. Proprio un bel quadretto. Poi, ecco che nasce l’idea folle: il progetto di una narrazione su due versanti. Musica e parole. E’ così che è nato il progetto di un libro di racconti e di un cd, una forma narrativa ibrida in cui la canzone completa a mo’ di quadretto qualcosa che il racconto non dice (o che è rimasto in filigrana).

Tutto il resto è venuto da sé. In primis, il filo conduttore del libro: un viaggio sui binari del tram 2 di Milano. Luoghi e volti, una realtà liquida in cui personaggi fragili scorrono senza soluzione di continuità sullo sfondo di un paesaggio che è costituzionalmente work in progress. Per me che ho scritto i racconti e i testi delle canzoni, il lavoro è stato una folgorazione sulla via di Damasco… e credo che Giordano abbia vissuto qualcosa di simile. Lo conoscevo come musicista folk e l’ho visto comporre pezzi nuovi, secondo non uno ma “degli” stili che non gli ho mai sentito sperimentare. D’altra parte, è così che funziona. Il bello della sinergia artistica è proprio questo: vedere la musica che ridisegna il profilo dei personaggi, facendoli diventare qualcosa di diverso da ciò che avevi pensato… e viceversa.

Detto ciò, tutto questo non sarebbe stato possibile se un editore coraggioso non avesse creduto nel progetto e non si fosse accollato i costi di tutto ciò che comportava: non solo del libro e del CD, ma anche di tre mesi tondi tondi di sala di registrazione. Il mio grazie, quindi va a lui: Gerardo Mastrullo di “La Vita Felice”. E ai favolosi musicisti che hanno partecipato alla creazione del CD: Maurizio Dehò, Giampiero Nitti, Garbiele Coltri, Tiziano Menduto, Angelo Maffezzoli, Silvia Bozzeda, Danilo Bajocchi, Adriano Sangineto, Sandro Bramati e l’ “immenso” Claudio Fasoli.

Game of Thrones e la paranoia dello spoiler. Ne abbiamo sempre sofferto?

Game of Thrones e la paranoia dello spoiler. Ne abbiamo sempre sofferto?

Un paio di mesi fa ho tenuto un corso di storytelling e sceneggiatura che, in fase di preparazione, mi ha indirettamente fornito una lente di ingrandimento su come è cambiato il nostro modo di costruire storie e di raccontarle. E’ proprio mentre ero lì “con le mani in pasta” nella fase di ricerca che un amico mi ha suggerito di guardare “Game of Thrones”.

Non amo il fantasy e le ambientazioni medioevali mi stufano a priori, ma l’amico in questione mi ha fornito l’esca perfetta dicendomi che “Le cronache del ghiaccio e del fuoco” scardinano diversi cliché dello storytrelling tradizionale (vedi schema di Propp ecc). Insomma, ho affrontato la fatica e mi sono macinata sette serie per rimettermi in pari. Risultati: ho immagazzinato materiale di riflessione da qui ai prossimi vent’anni. Effetti collaterali: ho sviluppato una dipendenza da GoT quasi invalidante (però ne sto uscendo).

Ma torniamo a bomba. Stamattina ho letto un articolo sull’ultimo episodio di GoT – che devo ancora vedere – e dopo poche righe mi sono resa conto (santiddio!) che si trattava di uno spoiler. Ho chiuso l’articolo. Ho smadonnato. Poi mi sono fermata a riflettere sul concetto di spoiler e mi  è sorta spontanea una domanda. Del tipo: è sempre esistita la paranoia dello spoiler? Come sono cambiati – in questo senso – i fruitori di storie?

Di materia prima sul tema, ce n’è a iosa a partire dalla letteratura più antica. Vogliamo parlare del dettagliato spoiler che Omero – o chi per esso – ci propina nel proemio dell’Odissea? Del prologo – altamente spoilerante – del “Romeo e Giulietta” di Shakespeare? Dell’incipit di “Le ultime lettere di Jacopo Ortis”? Di alcuni film che iniziano a partire dal finale, come “Lettera da una sconosciuta” di Ophuls? La letteratura – e la cinematografia – sono piene zeppe di esempi di questo tipo. Se pensiamo poi a forme come la fiaba e la leggenda (cioè a storie fatte per essere ri-raccontate da chi non ne conosceva solo il finale, ma anche la trama) le cose sono ancora più evidenti. Chiudo l’elenco con l‘esempio di George Lucas, il quale nel ’76 (ripeto: settatasei!) raccontò per filo e per segno al New York Times la trama di Stars Wars dal principio alla fine.

Ma rifacciamo un passo indietro. C’era – in effetti – un tipo di storytelling, nel passato, in cui non erano previsti spoiler (al di là di gialli e noir, ovviamente). Lo dico con cautela e a caldo, perché non ho fatto ricerche approfondite in merito: parlo del romanzo d’appendice, una tipologia di racconto in cui l’uso di tecniche di suspense era fondamentale per indurre il pubblico a proseguire nella lettura (comprando il numero successivo del giornale). Ed è qui che mi sorge un dubbio: non è che alla fin fine il problema sta tutto qui? Forse abbiamo iniziato a fruire delle storie così come si legge un giallo, un noir, o come si leggeva un romanzo d’appendice: con l’attenzione magnetizzata dal “cosa succederà ora?” piuttosto che da altri elementi cardine dello storytelling universale.

Parlo dell’aspetto identificativo, per esempio: quello che – anche sul piano pedagogico – ha segnato il successo secolare (no, millenario) della fiaba. Quando un bambino prosciuga il cantastorie di turno chiedendogli di raccontargli per l’ennesima volta la storia Pollicino, non lo fa perché si è dimenticato la trama o il finale. Lo fa per precipitare in una sorta di mantra autoipnotico in cui sarà lui a diventare Pollicino e in cui lui sconfiggerà l’orco e tornerà a casa da vincitore.

Ci sono poi altre storie che sembrano fatte per essere ri-lette, ri-ascoltate e ri-viste piuttosto che per esaurirsi a una prima fruizione. Parlo – per esempio – di quelli che Calvino chiamava “i classici“: le storie che, a ogni lettura, sfogliano livelli ulteriori di significato. Ho ri-letto “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov nove volte. Ho rivisto “Jules et Jim” di Truffaut non so quante volte tanto che certi dialoghi, li so a memoria. Le storie – o meglio: certe storie – hanno senso al di là del finale o degli eventi cardine che ne scandiscono la trama. Anche GoT, che soprattutto nelle prime stagioni aveva dalla sua dei dialoghi bellissimi.

La paranoia dello spoiler appiattisce i livelli di lettura di una storia e ci impedisce di coglierne la tridimensionalità. Un po’ come per i viaggi.. Se non capite cosa voglio dire, leggetevi “Itaca”… che certe cose, Kavafis le aveva capite da mo’.

La differenza tra un ghostwriter e un utero in affitto

Ho un’amica che mi chiama “ghost” e la cosa mi piace assai. “Ciao ghost!”, mi dice. E io sorrido. Sorrido un po’ meno, invece, quando qualcuno mi consiglia – con tono confidenziale – di non includere questa attività nel mio curriculum vitae. “E nel curriculum mortis? Posso?”, chiedo sempre di rimando. Dopotutto sono una ghost.

Al netto di queste esperienze, comunque, ho deciso di scrivere qualche articolo per spiegare al mondo cos’è un ghostwriter e perché non mi vergogno di campare di questo losco (?) mestiere. Ma partiamo dagli inizi e vediamo di capire in prima battuta cosa NON è un ghostwriter. Di seguito, ecco una selezione stringata ma esaustiva delle peggio-cose che mi sono sentita chiedere. Attenti, perché è materiale che scotta.

“Ma un ghostwriter è un autore che scrive solo racconti di fantasmi?” (e va beh, passi) “Ma un ghostwriter è un autore che scrive libri travestito da fantasma?” (sì: qualcuno me l’ha chiesto. Gente che, peraltro, apparentemente  non si droga) “Fai la ghostwriter? Ma dai, povera! Che avvilente. Non è un po’ come dare l’utero in affitto?” (O Cristo!)

Dunque, vediamo di fare un po’ di chiarezza. Il ghostwriter è uno scrittore che presta la sua professionalità a un committente rinunciando all’autorialità della propria opera in cambio di un compenso pattuito. Il che è grossomodo ciò che capita negli ambiti più disparati e che viene accettato senza che nessuno si sogni di batter ciglio. Perché? Perché queste sono in linea di massima le caratteristiche di un terzista comune e silvestre e proprio questo è, un ghostwriter: un terzista della scrittura. A volte – proprio come fa il terzista – il ghostwriter lavora su un prodotto fornito dal committente (che ha scritto il libro ma si rende conto che l’opera non sta in piedi). Trattasi di outsourcing nel vero senso del termine. Altre volte il committente chiede al suo nègre di fiducia (sì, in Francia ci chiamano così!) di scrivere il libro dall’inizio alla fine.

Nulla di mostruosamente amorale se pensate che questo capita – dalla notte dei tempi – in settori diversi. La vostra lavatrice, con ogni probabilità, non è stata fatta per intero dall’azienda che le ha messo il marchio, la vostra adorata borsa di Gucci non è (udite! udite!) fatta per intero da Gucci. Idem per quanto riguarda gli ambiti più disparati, anche in campo artistico. Per esempio, qualche mese fa ho conosciuto la ghostwriter di un bravissimo comico italiano… che peraltro non è un imbroglione per il fatto di avere una ghost (in realtà, di ghost ne ha tre) ma semplicemente un bravissimo attore che si fa scrivere i testi da chi di dovere.

Detto ciò, chi sono i committenti di un ghostwriter? Scrittori? A volte sì: in alcuni casi, in realtà, sedicenti scrittori, altre volte scrittori veri e propri che avendo troppe commissioni “danno in appalto” un po’ di lavoro al loro esercito di scrittori fantasma. Si dice che anche Stephen King abbia i suoi ghost… personalmente non so se sia una bufala o meno. Anche se fosse, però, la cosa non mi scandalizzerebbe. Pensate solo ai quadri che passano per opere di (puta caso) Michelangelo e invece sono state fatti dalla sua “bottega”. Ok, in questo caso si trattava di apprendisti, ma nella sostanza di molti di loro non sapremo mai i nomi. Perché? Perché erano dei “ghost”. Punto.

Nella maggior parte dei casi, comunque, il committente del ghostwriter non è uno scrittore ma un professionista che lavora in ambiti diversi dalla scrittura e ha bisogno di firmare personalmente il libro non per motivi di vanitas vanitatis ma per semplici ragioni di personal branding Dopo anni che ci siamo sentiti stramazzare le suddette da sollecitazioni continue, oggi l’unica forma di pubblicità potenzialmente efficace è quella che “non spinge, ma attrae”. Ecco perché per esempio un cuoco che commissiona un libro a un ghost ha bisogno di far figurare il proprio nome: il libro, in questo caso, è una via di mezzo tra il biglietto da visita, il curriculum vitae e una potente calamita. In parole povere, al nostro cuoco non importa una cippa di vincere il Pulitzer: il libro gli serve per essere “riconosciuto” in mezzo al mare magnum dei cuochi in circolazione. E poi comunque, datevi pace, in casi come questo (sempre per motivi di personal branding) il ghost di turno non ha nessun interesse a rivendicare la paternità dei suoi figlioli… e non perché non creda nella validità della propria opera, ma perché non gli interessa accreditarsi davanti al mondo come il cuoco che – peraltro – non è.

Comunque, tornando a noi e alle domande imbarazzanti su cos’è un ghost… sappiate che sono oltremodo tollerante. C’è solo una domanda che mi fa uscire dai gangheri e la domanda è: “Ah, fai la ghostwriter? Hai visto il film  di Polanski?” Ecco, in quel caso vi bestemmio dietro ( e anche davanti). Non perché non ami Polanski, ma perché quel film finisce così…