Il mondo della ristorazione da una parte, le attività culturali dall’altra. I controlli per il Green Pass non funzionano allo stesso modo per tutti
E’a partire dai grandi terremoti del 2016 (elezioni di Trump e Brexit) che si parla – tanto – di polarizzazione. Eppure ho l’impressione che l’apoteosi di questa tendenza abbia avuto luogo soprattutto negli ultimi due anni. Come forse è logico che sia: una pandemia è pur sempre una pandemia. Nell’ultimo anno, i meccanismi di polarizzazione hanno dato il peggio di sé concentrandosi soprattutto intorno alla diatriba tra pro-vaccino e contro-vaccino. Una polemica che sta pericolosamente rischiando di lasciare in ombra altri aspetti.
Senza entrare nel merito di questa opposizione binaria, quindi, tiro semplicemente le fila di quanto ho osservato in queste settimane: che in Italia fossimo specializzati nell’emanare leggi spesso anche troppo rigide senza poi farle minimamente rispettare, non lo dirò perché sarebbe pleonastico. Questo, nel caso dei controlli per il Green Pass è sotto gli occhi di tutti.
C’è un aspetto che però è meno ovvio e che ultimamente sto registrando con una frequenza preoccupante. Diciamocelo: la realtà dei controlli scorre davvero su un doppio binario. Cinema, teatri, sale da concerto: lì, il Green Pass viene rigorosamente richiesto. Per quanto riguarda, invece, le realtà legate alla ristorazione (bar e ristoranti) le cose funzionano in modo molto diverso.
Parlo per Milano: i locali che chiedono il Green Pass si contano sulle dita di una mano monca. Sono pochi, pochissimi. E questo lo trovo vergognoso per almeno due motivi. In primis, significa sputare in faccia a chi lavora nel mondo dello spettacolo e – nonostante l’impatto economico della pandemia – si sta adeguando alla situazione con grande senso civico, facendo tutti i controlli del caso. E bravi i nostri ristoratori!, (che pure, a quanto mi risulta) i sussidi se li sono presi e – a differenza di cinema, teatri e sale da concerto – hanno pure potuto tamponare le chiusure (anche se solo in minima parte) grazie all’asporto!
Secondo aspetto grave: con i locali pieni zeppi e nessun controllo, si rischia di favorire una percezione falsata di come vanno le cose. In questa prospettiva, infatti, non sapremo mai se le misure restrittive hanno o non hanno effetto perché – con i locali pieni come un uovo e senza controlli – se ci sarà un aumento delle ospedalizzazioni, come è presumibile, si dirà che i controlli non influenzano la curva. Mentre in realtà il problema è che i controlli non ci sono.
Morale della favola: non servono norme più rigide, serve maggior coerenza tra le normative e la loro applicazione effettiva. E sì, servirebbe anche un tantino di spirito corporativo in meno ma che dire? Siamo in Italia: come dare torto a Banfield quando parlava di“familismo amorale”?