Cambiare la narrazione dei cambiamenti climatici alle radici è fondamentale. Ed è fondamentale farlo rientrando in quella che in gergo si chiama “comunicazione del rischio“: una strategia comunicativa che viene messa in campo in situazioni di rischio oggettivo (guerre, catastrofi naturali, pandemie) con l’obiettivo specifico di rendere le persone in grado di rispondere in modo “utile” all’emergenza, sul piano concreto.
Detta in pillole: se sono su un’auto e qualcuno si mette a urlarmi nelle orecchie “finirai in un burrone!”, mi coprirò gli occhi, inizierò a urlare ed effettivamente finirò in un burrone. Ovvero: non farò nulla. Se invece mi viene detto: “se vai avanti per questa strada finirai in un burrone tra due minuti, ma se giri da questa parte ti salverai la pelle”, presumibilmente sterzerò dalla parte giusta. O comunque farò in modo di assumere la guida e di prendere la situazione in mano.
Questa metafora vale per qualsiasi situazione di emergenza, crisi climatica inclusa. Ecco perché è importante parlare anche di soluzioni: perché le soluzioni sono un “si può fare” che mobilita all’azione e la orienta. Un aspetto che, nel bel mezzo di cotanta informazione spettacolarizzata, abbiamo perso di vista. Questo vale sia nel caso di soluzioni macro (quelle che puntano alla riduzione delle emissioni e al loro riassorbimento) sia per le cosiddette soluzioni di adattamento. Quelle, cioè, che ci aiutano da una parte a capire che l’impatto della crisi climatica è “qui e ora”, e dall’altra ci consentono di mitigarne gli effetti. Marco Merola ha approfondito il tema nel suo bellissimo progetto: Adaptation, appunto (nomen omen).
Ieri, sugli schermi di Teletruria, ho approfondito il tema.