Coronavirus: diario di bordo di un medico generico. Cosa è cambiato e cosa dovrà cambiare

Intervista a Ludovica Tagliabue, medico generico a Milano (zona Lorenteggio). Cosa è cambiato – a livello operativo – con la pandemia? Come è stata gestita la situazione dall’alto? Cosa è mancato ai medici generici che da un giorno all’altro sono stati catapultati in prima linea? 

Ludovica, come è cambiata la situazione dal punto di vista di un medico generico negli ultimi due mesi?

Innanzitutto è cambiata per quanto riguarda la disciplina. Sono molto più severa sul fatto che le persone si debbano presentare da me solo dopo aver preso appuntamento e non “a caso” (perché spesso, normalmente, arriva qualcuno senza aver chiamato). In questo periodo, rispetto al solito, ci sono molte più persone che arrivano da me con la febbre. Alcune vengono a farsi visitare temendo di avere il coronavirus, altre invece dicono semplicemente che hanno la febbre: in questi casi, io devo capire di volta in volta come comportarmi. Sono in tanti ad arrivare qui con l’ansia di ammalarsi: sta a me,  accoglierli e aiutarli a far fronte alla situazione.

Quindi generalmente, rispetto a quello che succede di solito nel mese di marzo, ci sono molte più persone con la febbre (anche senza sintomi da coronavirus)?

Sì. A me sembra proprio di sì: molte più del solito. Ho fatto una statistica un po’ spannometrica, ma ne sono sicura: in genere il grosso dell’influenza normale finisce a febbraio.

Tra questi pazienti, ti è capitato qualcuno che effettivamente avesse sintomi da coronavirus?

Sì, sono capitate alcune persone, con delle brutte polmoniti. Questi pazienti,  poi sono stati mandati in ospedale ed effettivamente sono risultati affetti da coronavirus.

Qual è la prassi in questi casi. Quando riscontri dei sintomi che sospetti siano da coronavirus, tu – come medico generico – cosa devi fare?

Fino a tre settimane fa bisognava valutare e chiedere se c’erano stati contatti con gente che veniva dalla Cina o con persone infette. Adesso la prassi è cambiata: bisogna capire la gravità del quadro clinico, ovvero se il paziente soffre o meno di insufficienza respiratoria. Se non ci sono problemi respiratori, dico al paziente che deve stare a casa e lo monitoro soprattutto per telefono. Di fatto, però, lo considero infettivo anche se non ha ancora fatto il tampone (che si fa solo in ospedale ai pazienti gravi). Mentre con l’influenza normale dicevamo al paziente: “Stai a casa 5 giorni”, oggi gli imponiamo di rimanere a casa almeno 15 giorni.

Quando invece i sintomi sono gravi, dove mandi i pazienti?

In quel caso c’è un numero telefonico di riferimento e a quel punto dovrebbe attivarsi il servizio di emergenza.

La chiamata passa da te o la fa il paziente?

Mah… alla fine la facciamo tutti e due. In tutto, comunque, mi è capitata una decina di casi per ora.

Ti si presentano tendenzialmente più giovani o anziani in questo momento?

Più giovani, forse. Gli anziani che hanno la febbre stanno a casa (e li visito a domicilio) ma non sono tantissimi. Sono più i giovani che vengono in studio.

Tu che hai a che fare con tanti pazienti, hai mezzi adeguati per coprirti, per proteggerti?

Ecco, questa è proprio una nota dolente! Nel senso che Ats (la ex ASL) non ci ha dato assolutamente niente, all’inizio ci ha consegnato giusto 10 mascherine (chirurgiche, quelle che servono per non contagiare gli altri, non a non essere contagiati), un pacco di guanti e un barattolino di disinfettante in tutto e soprattutto non ha fatto nessuna formazione sull’utilizzo dei presidi. Mascherine a parte, infatti, dovremmo usare anche i camici “usa e getta”, dovremmo avere una mentalizzazione dello spazio che distingua la parte pulita dalla parte sporca, dovremmo toglierci i guanti quando dobbiamo scrivere ecc… dovremmo anche pensare come e dove cambiarci se andiamo a domicilio (sul pianerottolo? In anticamera? E dove buttiamo il materiale quando ci svestiamo?)  Ecco, tutta questa formazione, ce la siamo improvvisata tra di noi (tra colleghi), aiutandoci a vicenda, ma non ci è stata assolutamente fatta da Ats. In pratica ci è toccato andare a caccia di mascherine per conto nostro. C’è molta polemica su tutto questo.

10 mascherine e qualche presidio in in fase iniziale, quindi. E successivamente?

Il 21 marzo ATS ci ha dato altre 20 mascherine chirurgiche e un altro pacco di guanti. Il 23, il Comune di Milano ha donato ai medici 5 mascherine FFP2 (più protettive) e un altro barattolo di disinfettante lavamani.

Tu, personalmente, come hai fatto a procurarti ciò che ti serviva?

Un’amica che lavora in ospedale mi ha procurato una scatola di mascherine (introvabili, in questo momento) dicendomi “In fondo, sto solo trasferendo questo materiale da un settore del SSN all’altro, non è un furto.” Qualche giorno fa invece, nella cantina di un palazzone di un quartiere popolare in cui si vende materiale medico, la venditrice mi ha proposto un pacco di camici usa e getta un po’troppo sottili che aveva sottomano e poi ha tirato fuori (per regalarmeli) tre camici “di quelli buoni”, belli spessi e impermeabili ma scaduti per la sterilità (cosa che a me non interessa affatto perché non devo andare in sala operatoria) dicendomi “Li apra subito, se no i NAS potrebbero farci molte storie”. E alla collega in fila prima di me, che aveva detto “Li tenga via per i miei amici”, la commessa ha risposto “Dobbiamo fare un po’ per uno.”

Al di là della scarsità dei dispositivi di protezione, parlavi anche di carenza di formazione da parte di ATS. Nello specifico, su quali punti sarebbe stato utile – da subito – avere direttive comuni?

Il punto fondamentale, senza dubbio, è ciò di cui ti parlavo: scarsità di dispositivi di protezione (molti dei quali, peraltro, non sono assolutamente adatti) e assenza totale di formazione sul loro utilizzo. Altra nota dolente: numero telefonico ATS destinato agli operatori sulle problematiche relative al Coronavirus a cui non risponde mai nessuno e mail altrettanto muta; assenza di formazione seria sulla gestione dei contatti (quanti giorni di quarantena? A partire da quale momento vanno contati? Come dobbiamo gestire i contatti paucisintomatici?). Le ADI (ndr: Assistenza Domiciliare Integrata) COVID (e ora le USCA = Unità Speciali di Continuità Assistenziale) citate nella delibera sono nominate ripetutamente in comunicazioni/delibere successive da un mese: sono state attivate? C’è poi una situazione delicatissima che ci troviamo a fronteggiare senza sapere cosa fare: io ho da gestire pazienti con sintomi suggestivi di COVID che non sapremo mai se sono CORONAVIRUS+ o meno (perché, a meno che non si aggravino e vadano in ospedale, a nessuno di loro verrà fatto il tampone). Come si può intuire, questi pazienti, quando e se stanno bene, sottovalutano il rischio di contagio per la comunità o magari hanno problemi lavorativi e devono lavorare (ho l’esempio di una OSS di una cooperativa che si occupa di una struttura privata convenzionata, che se va a lavorare rischia di contagiare tutti i pazienti di quell’ospedale). Su questi stessi pazienti io non ho alcuna linea guida clinica adattata alla realtà milanese (come dovrebbe essere una linea guida, che considera le risorse disponibili nella realtà locale) per la gestione domiciliare. Ecco, questi sono alcuni dei punti su cui sarebbe necessario fare chiarezza.

C’è qualche aspetto positivo che è emerso durante la difficile gestione di questa situazione? Magari anche proprio dalle difficoltà gestionali che vi trovate ad affrontare?

In parte, sì. Proprio in risposta alla mancanza di linee guida stabilite dall’alto, tra medici generici tendiamo a supportarci e a cooperare molto: abbiamo stabilito alcune procedure per gestire nella quotidianità i pazienti che abbiamo in carico. Ovvio, però, che non si può pensare che queste forme di coordinamento, sorte spontaneamente dal basso, sopperiscano all’assenza di una normativa comune.

Quando l’epidemia sarà alle nostre spalle, quindi, cosa sarà necessario cambiare (secondo te) perché – nell’eventualità di una situazione simile – non vengano ripetuti gli stessi errori?

I manuali di medicina preventiva e sanità pubblica dicono che le malattie infettive si combattono scoprendo e inattivando le sorgenti di microrganismi, interrompendo le catene di trasmissione, ovvero modificando i fattori ambientali e i comportamenti che favoriscono la persistenza e la diffusione dei microrganismi e aumentando la resistenza alle infezioni. Tutto ciò presuppone un lavoro multidisciplinare sul territorio, di educazione sanitaria e di bonifica territoriale che deve essere effettuato sempre, non solo nel mezzo di una epidemia. Dalla nascita del Servizio Sanitario Nazionale, i servizi territoriali di sanità pubblica (soprattutto in Lombardia) sono stati tagliati: una grave perdita per i pazienti ma anche per la medicina di base, che non ha strutture “al suo livello” con sui interfacciarsi. Questi servizi devono essere presenti e attivi sempre, ci sia o no un’epidemia. Inoltre è molto importante valutare seriamente le evidenze scientifiche (che possono derivare dalle sperimentazioni, ma anche dalle esperienze portate avanti in altri contesti) prima di prendere qualsiasi tipo di decisione sanitaria. E questo in Italia spesso non viene fatto.

Credi che nasceranno nuove forme di coordinamento e che saranno i medici stessi a portare avanti queste richieste?

Spero che si torni indietro rispetto a una organizzazione del servizio sanitario nazionale ospedalocentrica, perché secondo me la salute si fa soprattutto con la prevenzione, e quindi sul territorio. Probabilmente sì, una visione del genere deve essere portata avanti dai medici. Non dai decisori politici.

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